Giornata intensa,
fatta d’emozioni
di ore concitate
di parole
di lavoro.
Un susseguirsi continuo
sono giornate così.
Il lavoro è in una fase talmente frenetica
da perderci la testa.
Per fortuna è lavoro esecutivo
così le mie mani volano
e il cervello continua ad elaborare
pensieri di ogni forma
sentimenti d’ogni tipo.
Pare proprio che la mia mente sia ben disposta
verso l’analisi di qualsiasi cosa.
Guardo un telegiornale ed elaboro,
guardo gli spazi pubblicitari che creo ed elaboro,
guardo la gente e…
ok, mi annoio.
Spesso mi ritrovo ad annoiarmi.
Eppure persone interessanti ce ne sono
parecchie, fra l’altro.
Personcine che
anche con una presenza periferica
riescono a darmi una carica incredibile.
Ma non qui, in questo posto
che pare diventare
a giorni alterni,
sempre più stretto e lontano
dai miei sogni professionali.
E chi si lamenta?
Io, è ovvio.
È nella natura umana
lamentarsi.
Forse è per il piacere
di continuare a sentire la mia voce
che rimbomba nella mia testa
(magari mi dimentico la timbrica).
Giorni alquanto strani
questi.
Strano anche il mio modo di scrivere.
Meno discorsivo.
Meno chiaro.
Come se influenze esterne
avessero preso possesso del mio stile.
E, saltellando di palo in frasca,
faccio una considerazione
su un discorso, piuttosto acceso,
che oggi mi ha fatto ricordare
tempi passati
in cui il mio bambinetto
ha affrontato dei giorni cupi
nel contesto scolastico.
Giorni? Anni!
Chi siamo noi per “giudicare” l’operato di professionisti ai quali affidiamo serenamente la vita dei nostri figli, per formarli, per integrarli e farli crescere in modo costruttivo e ottimale per questa società sempre più caotica? Gente preposta all’insegnamento. Ma che dimostra, con i fatti, di aver dimenticato per quale motivo è stata “selezionata” (mi fa ridere…) per plasmare le menti dei nostri figli. Gente con tanto di laurea, che insegna da una vita, e che per una vita ha dato informazioni con distorsioni dialettali (nulla in contrario nei confronti dei dialetti, se però non rendono deleteria, per esempio, una lezione di matematica, di storia, di italiano…) sgrammaticate e ridicolizzabili anche dai ragazzini stessi.
Qualche giorno fa Gaggio, ha inveito contro una famiglia che ha deciso di ricorrere ai magistrati per “rivendicare” la bocciatura del proprio pargolo.
Perché inveire?
Da quando una coppia modesta, magari di operai, non è in grado di capire se il proprio figlio è collocabile allo stesso livello dei ragazzi coetanei?
Un ricorso alla magistratura, dunque, se risulta vincente è un’oscenità verso la categoria! Una intimidazione alle istituzioni, una mancanza, bella e buona di fiducia.
Sostanzialmente, chi non approva lo stile d’insegnamento, i docenti, e non accetta che possano esserci degli errori di valutazione, è un cretino. Se non va bene la collocazione del proprio figlio, si può sempre pensare di spostarlo, di farlo emigrare per altri lidi.
Ma perché cambiare, noi vittime dell’incuria, della trascuratezza, della negligenza di professionisti poco adeguati? Perché non far emergere il disagio e porre nelle condizione, gli stessi, di farsi delle domande e provare a dare una svolta ai propri metodi?
Noi, che ci affidiamo a loro, non possiamo discutere.
Non possiamo sapere, non ci è dato di sapere. Perché le regole sono dettate da una classe ristretta di persone che crea la solita elite, dalla quale siamo tagliati fuori.
E tutto è rigorosamente indiscutibile.
Riferimenti: “Lo scolaro povero” Antonio Mancini (1852 – 1930)